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Cassazione, la responsabilità del datore di lavoro per morte da mesotelioma

ROMA – Con la sentenza 43876 del 13 Dicembre 2010, la Corte di Cassazione, sezione IV Penale si è nuovamente espressa in merito alle responsabilità del datore di lavoro per morte da mesotelioma di un lavoratore.

La responsabilità penale del datore di lavoro, così come di tutti i membri del cda, per omicidio colposo è riscontrabile solo nel caso in cui si dimostri che la morte per amianto è dovuta ad una esposizione prolungata all’agente lesivo che abbia accelerato la malattia.

Il fatto si riferisce alla morte di un operaio di uno stabilimento industriale, esposto per numerosi anni alle polveri di amianto, deceduto per le conseguenze nefaste di un mesotelioma pleurico.

Nel giudizio di II grado i Giudici di merito pur definendo difficilmente dimostrabile la circostanza che il processo patogenico fosse iniziato in ambito lavorativo hanno sostenuto la responsabilità del cda aziendale per omicidio colposo per aver omesso le cautele necessarie; infatti i Giudici della Corte territorialmente competente avevano accertato la mancanza dell’attuazione delle misure di sicurezza minime per la riduzione dell’esposizione all’amianto: dalla mancanza di un impianto di aspirazione all’interno della fabbrica, all’utilizzo delle mascherine per i lavoratori, alla mera abitudine di bagnare le polveri prodotte nella lavorazione dell’amianto.

Gli Ermellini si sono conformati a quanto sostenuto dalla Corte di Appello in merito alla responsabilità penale di tutta la direzione aziendale ma hanno cassato con rinvio, per consentire ai Giudici competenti di verificare il ricorrere del nesso di causalità tra danno ed evento, ossia tra la violazione delle norme in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, a favore dei lavoratori, e la morte dell’operaio.

Infatti nel merito si deve obbligatoriamente considerare e provare la circostanza che l’esposizione protratta per anni all’agente patogeno possa agevolare o meno lo sviluppo della malattia; naturalmente tale “fattore acceleratore”- come lo hanno definito i Giudici di Piazza Cavour- deve essere confermato da elementi concreti e rilevanti sul piano fattuale.

La convinzione che l’esposizione prolungata alle polveri di amianto e o sostanze tossiche/nocive a queste correlate determini il decesso dell’operaio deve fondarsi su solidi basi scientifiche oltre che sul riscontro degli indizi che hanno avviato il processo acceleratore di degenerazione fisica.

In definitiva nell’ambito delle malattie professionali causate dall’esposizione all’amianto si è in presenza di un comportamento soggettivamente rimproverabile a titolo di colpa quando l’attuazione delle cautele “certificate” all’epoca dei fatti avrebbero annullato con probabilità vicina alla certezza le possibilità di contrarre la malattia.

Nel caso di specie l’esposizione alla sostanza nociva è frutto di un determinante organizzativo di carattere condizionante, nel senso che se il lavoratore non fosse stato addetto a quella pericolosa lavorazione l’evento non si sarebbe verificato.

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